L’ascesa del mondo socialista*


L’ascesa del socialismo nel corso del XIX fu un fenomeno europeo, destinato a irradiarsi al di fuori dei confini originari pur con modalità diverse, c talvolta anche configgenti con il nucleo identitario originario, lino a improntare la storia dell’intero secolo XX. La consistenza del fenomeno, inteso come patrimonio culturale e movimento organizzato, fu tale da sfidare la potenza degli Stati e perfino da porsi in concorrenza con la millenaria Chiesa. Per comprenderne dimensioni e durata occorre considerare che esso fu figlio dell’industrializzazione e del progresso tecnico, in un periodo nel quale quella si presentava come il futuro, la modernità avanzante e per certi versi irresistibile, tale da travalicare già la culla europea, per espandersi oltre Oceano negli Stati Uniti o in Giappone. Insomma, il socialismo, prima ancora di esserne l’avversario, era il figlio del capitalismo, che reclamava libera circolazione di merci e uomini, e che eleggeva a classe dirigente la borghesia, inizialmente in cooptazione, come in Italia, con la proprietà terriera, se e quando questa ne facesse propri i valori e le procedure nella gestione del potere. Nell’espressione più matura ed evocativa il capitalismo si esprimeva nella fabbrica, o, per meglio dire, nel sistema di fabbrica e nella gestione delle grandi infrastrutture, soprattutto ferroviarie, determinando la formazione di un nuovo ceto di lavoratori, operai sem¡qualificati ma soprattutto comuni, che pur essendo minoranza svolgevano un ruolo di aggregazione fondamentale, con un’influenza crescente anche nei confronti delle figure impegnate nelle tradizionali attività artigianali, nei servizi e perfino nelle professioni. L’affermazione di tale soggetto poneva bisogni e sfide nuovi, e con essi l’esigenza di adottare procedure più articolate nella gestione delle risorse. In una prima fase la classe dirigente vi vide una minaccia e assunse atteggiamenti ora ostili, ora di mal sopportata tolleranza, ma ben presto comprese che la strutturazione delle domande veicolate dal nuovo soggetto era necessaria, e quindi utile allo sviluppo ordinato della società. Subentrò quindi una seconda fase nella quale il confronto, lo scontro e il compromesso furono considerati e praticati non più come eccezioni, ma in via ordinaria, il che, a ben vedere, sollevava problemi di compatibilità generale, con esili diversi.

A ben vedere, il partito e il sindacato – e specialmente quello generale e confederale – furono la risposta al nuovo tipo di conflittualità sociale emergente a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, la quale reclamava modalità più complesse e aperte, più organizzate: dalla pratica dello sciopero, alla disciplina dell’orario di lavoro con l’evocazione delle “tre ore” (di lavoro, di riposo e di tempo libero) implicita nella mobilitazione collettiva per la festa del 1° maggio, al controllo dell’allocazione della manodopera con l’ufficio di collocamento, alla più generale definizione del contenzioso fino alla pratica contrattuale collettiva e alla magistratura arbitrale. Era la stessa società di massa, che avanzava in modo impetuoso, a farsi complessa, ad articolarsi in organizzazioni di interessi, a reclamare lo sviluppo di istituti più rappresentativi, a sollecitare il ruolo attivo degli enti territoriali, ad affiancare alle istituzioni pubbliche organi consultivi, a sviluppare apparati simbolici c rituali. Il Partito dei lavoratori e l’organizzazione corporativa dei lavoratori, cioè il sindacato, ne furono tra le espressioni più significative, e da allora nessuna società avanzata avrebbe potuto farne a meno. Parafrasando l’immagine del “decollo” per connotare la fase iniziale dell’industrializzazione, si potrebbe dire che il socialismo veicolò il decollo del moderno sistema politico fondato sui partiti di massa, nazionali e territoriali. Il costituzionalismo, grande conquista lasciata in eredità dall’Ottocento si connotò in tal senso, e nuovi diritti vennero emergendo, a cominciare da quello del lavoro, introducendo problematiche avvertite sempre più urgenti, dalle tutele, a cominciare dalle categorie più deboli come i fanciulli e le donne, alle assistenze e previdenze. Punti più critici erano quelli delle assicurazioni contro gli infortuni del lavoro e la concessione delle pensioni, ma la gamma degli interventi era vasta c destinata a incrementarsi. Lo Welfare State faceva il suo ingresso.

Il lavoro appariva ora una fonte di riscatto morale ed economico fattore di una riforma intellettuale e civile della società intera. Il Partito, che da esso traeva ispirazione e che con esso cercava collegamenti organici, si faceva portatore di identità collettive, e, al centro di un universo associativo che tendeva a porsi come microcosmo, esprimeva conforto e sicurezza. Nel far ciò si caricava di un bagaglio utopico, trovando per questa via canali efficaci lungo i quali trasmettere messaggi più politicamente orientati o rivendicazioni di immediato impatto. L’evoluzione della società, dove la specializzazione si accompagnava ad impensabili sviluppi della scienza e della tecnica, richiedeva razionalità nelle scelte e nei comportamenti, individuali e collettivi, ma le dimensioni dell’agire collettivo reclamavano suggestioni ed evocazioni. In tempi di razionalità, anche l’irrazionale trovava la sua rivincita.

Il partito dei lavoratori, nella sua versione socialdemocratica, era speculare allo Stato nazionale territoriale, prodotto della modernizzazione della politica, che l’Ottocento lasciò in eredità al secolo successivo, clic rie decretò il trionfo su scala planetaria. Quel tipo di partito, infatti, era nazionale e territoriale, e parlamentare e tendenzialmente di massa. Era, di fatto, espressione della nazionalizzazione delle masse, nonostante clic individuasse nell’associazionismo internazionale, e di classe, un elemento identitario così forte da improntare a ciò in progres­sione le diverse fasi della sua storia (1, II, III c perfino IV Internazionale). Non a caso, dalla plebe, dai ceti di rango inferiori, dagli emarginati, dalla gente comune, esso andò rivolgendosi al ceto lavoratore e quindi alla classe operaia, portando in tale processo il valore aggiunto della coscienza e dell’organizzazione, intesa quest’ultima come completamento della personalità del singolo. E poi dietro la militanza era il supporto ddl’azione volontaria: il mettersi insieme per emanciparsi, l’auto-aiuto, il riconoscersi come “compagni” di una causa, che si faceva sempre più comune fino a diventare universale. Il simbolo più universalmente riconosciuto fu quello delle mani intrecciate, ancor più di quello recante la falce c il martello nella supposta unione dei lavoratori dei campi e della fabbrica. Era non solo la promessa di un futuro migliore, ma anche una dimensione comunitaria percepita nel vivo, e quindi remunerativa. Lo scatto del premio di fedeltà, con così forti tratti fideistici, non sarebbe altrimenti comprensibile.

La nazionalizzazione delle masse e la maggiore complessità della società comportavano l’allargamento della cittadinanza politica, con lo sviluppo degli istituti rappresentativi, del ruolo attivo degli enti territoriali e l’affermazione degli organi consultivi dello Stato. Lo sviluppo dell’istruzione, diventata obbligatoria, era ora tra gli obiettivi centrali dello Stato nazionale. La socialdemocrazia si definì intorno ad una tipologia di partito educatore, che perseguiva la propaganda di massa, anche ma non solo a fini elettorali, perché andava dotandosi di sedi territoriali deputate a svolgere un’attività costante. Tale partito, insomma, era uno dei principali fattori della mobilitazione politica diffusa, rivestendo una duplice, ma sinergica, funzione negli anni della 11 Internazionale (1889): politica c democratica, sindacale e corporativa.

Costituito da apparati e sezioni territoriali, attrezzandosi per il cimento elettorale ai cui esiti imparò presto a misurare successi e insuccessi, si realizzò nella direzione dell’espansione della cittadinanza attiva, politica e sociale, educando il singolo e il gruppo alla gestione della cosa pubblica, e soprattutto aggregando e mediando i nuovi interessi o bisogni sociali. Sotto questo aspetto la sua presenza può valutarsi positivamente nel senso della stabilizzazione del sistema o. almeno, dello sviluppo della società, nonostante che formalmente si ponesse in alternativa al potere dominante e si facesse financo tramite di una visione “altra” della società stessa, fondata sull’etica del lavoro, rispetto a quella vigente, che si voleva disordinata, squilibrata e iniqua. La sua stessa evoluzione rifletteva tale attitudine di fondo, delineando dovunque il passaggio da movimento a istituzione, da forma esterna e extraparlamentare a funzione centrale del sistema politico rappresentativo di massa, da organismo a fondamento classista a partito dello sviluppo sociale.

Se questa può considerarsi l’ascesa del socialismo ira Ottocento e Novecento, c’è da chiedersi ora quale impatto abbia avuto in Italia, nell’ambito dello sviluppo dello Stato unitario, di cui si intende qui ricordarne la ricorrenza del 150° anniversario. La sua diffusione in Italia nei decenni all’indomani dell’Unità ne attestava la connessione con il respiro profondo della storia, forse senza ricoprirvi un ruolo protagonístico, ma certamente con un proprio profilo che sostanzialmente rifletteva le caratteristiche del paese sulla scena internazionale. Correnti di pensiero, gruppi, uomini in sintonia con il socialismo d’Oltralpe, santsimoniano e proudhoniano, bakuniniano e marxista intrecciarono le proprie vicende con il processo risorgimentale, contribuendo a conferirgli un carattere democratico-popolare. La prima generazione socialista o pseudosocialista si legò agli esiti del processo risorgimentale, in quanto intercettava le domande di coloro che avrebbero voluto che la rivoluzione nazionale si traducesse in soluzioni politico-istituzionali più radicali, dal suffragio universale alla forma repubblicana, fino, ma in frange molto minoritarie, alla nazione armata o all’ipotesi federalista; e che in ogni caso fosse occasione di profondi mutamenti sociali a vantaggio di quei ceti popolari urbani e del mondo del lavoro che l’egemonia borghese, o aristocralico-borghese nell’ossequio al costituzionalismo sabaudo sembrava trascurare. Non bisogna trascurare infatti che le “rivoluzioni nazionali” dell’Ottocento si accompagnavano ad un’idea, che era anche una aspettativa, di libertà, la quale riguardava i popoli, ma anche gli individui; c che tale tensione emancipatrice poteva tradursi facilmente in una sia pure generica occasione di riscatto sociale sulla spinta dell’azione del volontariato urbano e giovanile, quando dall’ambito strettamente istituzionale e politico travalicava nell’ambito delle relazioni interpersonali e della gestione delle risorse.

Accanto alle correnti mazziniane, che larga influenza esercitarono nelle società operaie, prevalentemente di mutuo soccorso, che costituirono una prima ossatura del movimento, passando da 443 sodalizi a 1447 nel 1873, a 4896 nei 1885, a 6722 nel 1896, si palesarono gruppi massonici e libero pensatori diretti da personalità come Luigi Stefanoni e Luigi Castellazzo, cristiano-sociali, internazionalisti e libertari, democratico-sociali, operaisti. Lo stesso Garibaldi, pronunciatosi a favore della Comune nel 1871 a differenza di Mazzini, espresse la sua simpatia per la nuova causa dichiarando che “il socialismo è il sol dell’avvenire”. Fu a partire dagli anni Ottanta che si andarono costituendo le istituzioni fondamentali di quello che sarebbe diventato l’universo socialista: la sinistra, non quella liberale e costituzionale al Governo dal 1876 con Deprelis, Crispi e poi Giolitti, ma piuttosto quella cresciuta nella società con modalità estranee al notabilato e alla proprietà autolegittimante, o addirittura alternative alla prima, si andò progressivamente strutturando. Fu una vera e propria svolta, favorita dall’allargamento del mercato e dall’interazione internazionale di beni, uomini c esperienze, dal decollo industriale, dal bisogno di maggiori tutele sociali e del lavoro, dall’allargamento del suffragio ancorché a quello universale maschile si pervenisse solo con la legge del 1912. Quella svolta e gli esiti successivi lasciarono di fatto un eredità destinata a durare almeno fino alla fine del XXI secolo, e forse oltre. Con tutti i limiti ammissibili, l’Italia unita diventava più moderna ed europea, e si faceva più nazione.

Della strutturazione della sinistra sopra citata basteranno qui pochi dati. Nel 1902 vantava già l’adesione di 2823 cooperative, con mezzo milione di soci, che nel 1914 raggiunsero il traguardo del milione. Come nel caso delle società di mutuo soccorso, dove i socialisti rimasero sempre componente minoritaria almeno fino agli anni giolittiani, anche nel movimento cooperativo l’iniziativa fu inizialmente dei democratici, radicali e repubblicani, e dei liberali (si pensi a Luigi Luzzatti), ma poi, resisi autonomi precocemente i sodalizi del credito popolare e cooperativo e separatisi i cattolici, l’influenza socialista si rafforzò progressivamente, a partire dal settore di consumo e di lavoro e produzione. Fu em­blematica la nomina a segretario nel 1912 del socialista Antonio Vergnanini, segretario della Camera del lavoro di Reggio Emilia, in successione al radicale Antonio Maffi. Nel 1902 le società cooperative censite erano 2823, con mezzo milione di soci. Nel 1914 raggiunsero il milione: un numero già molto ingente nell’Italia liberale, ma che nell’immediato dopoguerra quasi raddoppiò. Si disse che alla fine del 1920 il capitale azionario delle società aderenti alla Lega si aggirava intorno ai 600 milioni di lire, con un movimento di affari sul miliardo e mezzo. Accanto al sodalizio di mutuo soccorso o cooperativo crebbe anche il circolo orientato all’impiego del tempo libero: la casa del popolo di Massenzatico, la prima di una rete diffusa, apparve nel 1893.

Alla fine del secolo, ma soprattutto nel 1901-1902, la sindacalizzazione fece passi significativi non solo in direzione del lavoro dipendente in area urbana, nelle arti e mestieri, ma anche nei servizi, dai maestri e insegnanti ai postelegrafonici, per non parlare dei ferrovieri che dovunque erano precocemente interessati al fenomeno per via del forte senso di appartenenza corporativa. Perfino l’impiegato, si disse, “si faceva popolo”, dividendone la vita c le aspirazioni. Era questo un fenomeno europeo, come si c già dello, ma in Italia assunse un connotato particolare per la mobilitazione delle campagne, altrove sconosciuta per dimensioni e rilevanza politica. Agli inizi del secolo circa duecentomila lavoratori dei campi entrarono in sciopero per migliorare le condizioni salariali c per diminuire la giornata di lavoro: fu la “resistenza”, la resistenza al datore di lavoro. L’unità di base era rappresentata dalla lega, che confluiva in organismi di secondo grado e infine in una Federazione nazionale dei lavoratori della terra, nata a Bologna nel 1901 con una forte vocazione classista. L’iniziale area di diffusione era quella padana ed emiliana, e la figura protagonista prevalente era quella del bracciante, che dal 1901 al 1911 rappresentò il 70 per cento degli organizzati e per 1 ’87 per cento l’attore delle agitazioni agrarie. Più lenta c controversa fu la sindacalizzazione dei mezzadri, degli obbligati e dei piccoli proprietari, che in ogni caso rimasero prevalentemente nell’influenza repubblicana o cattolica. Un ulteriore fattore di straordinaria novità che non può passare sotto silenzio fu il fatto clic per poco meno di venti anni a dirigere la Federterra fu una donna, Argentina Altobelli, segno evidente che la valenza emancipatrice riconducibile alla nuova idealità socialista fondata sul riscatto e sull’etica del lavoro si innestava su un processo, quello dell’emancipazione della donna, che, se avrebbe connotato la storia del Novecento, allora, agli inizi del secolo, in un universo sostanzialmente maschilista, era appena agli albori. Ne era traccia evidente la stessa testata, La Difesa delle lavoratrici, del giornale fondato da Anna Kuliscioff.

L’insediamento sindacale portò alla creazione delle Camere del lavoro, organismi territoriali che riunivano gii organismi di base di tutte le categorie; e delle Federazioni di mestiere, strutture verticali tendenzialmente su base nazionale, con fondamento professionale. Più lento fu il passaggio dal sindacato di mestiere a quello d’industria. Nel 1906 la maggioranza di tali organismi dettero vita alla Confederazione generale del lavoro (CGdL), con una chiara vocazione socialista riformista, favorevole alla legislazione sociale e alla tutela legale del lavoro, in una proiezione parlamentare che implicava una interazione con il partito socialista, e alla presenza del soggetto sindacale nelle istituzioni, con la partecipazione agli organi consultivi dello Stato, a cominciare dal Consiglio superiore del lavoro. La nascita della CGdL implicò la costituzione della cosiddetta Triplice del lavoro, insieme alla Lega nazionale delle cooperative e della Federazione nazionale delle società di mutuo soccorso, da allora sempre più legata alla precedente con cui condivideva l’organo ufficiale, “La Cooperazione nazionale”. La denominazione stessa evocava, in contrapposizione, quell’alleanza stipulata nel gioco diplomatico-dinastico, ultima eredità dell’Ancien regime, tra gli Imperi dell’Europa centrale e l’Italia. La Triplice “proletaria”, invece, ribadiva la centralità del lavoro per una politica di sviluppo del paese che ne utilizzasse le risorse non a fini di potenza e di espansionismo coloniale, bensì per l’ammodernamento infrastrutturale, le opere di bonifica e la messa in coltura delle terre incolte, il potenziamento della domanda interna basata sui consumi. In un mercato del lavoro fortemente squilibrato, e interessato a significativi flussi migratori, con vaste aree di sottosviluppo e di precariato, soprattutto femminile e giovanile, e gravato da basse retribuzioni, l’occupazione era un obiettivo centrale. La “grande politica del lavoro” auspicata nel 1912-1914, in alternativa al colonialismo tripolino e alla corsa agli armamenti (al punto da condizionare il successivo orientamento neutralista dei socialisti italiani), non trovò grande ascolto in tempi nei quali il rullo dei tamburi di guerra diventava sempre più assordante; 116 migliore esito conobbe nell’immediato dopoguerra il Rifare l’Italia di Filippo Turati, che di quell’indirizzo fu l’elaborazione più matura, destinato comunque a restare tra le testimonianze più alte dell’intera vita politica e parlamentare dell’Italia unita.

Negli anni Ottanta si costituirono le prime organizzazioni partitiche. Nel 1881 fu la volta della costituzione del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, subito dopo la svolta legalitaria impressa da Andrea Costa con la lettera agli amici di Romagna con cui esplicitava il passaggio dal primo internazionalismo libertario ad un socialismo che voleva “mescolarsi con il popolo” e per esso “conquistare i comuni”. Nonostante le proclamazioni rivoluzionarie, di fatto collocava tale prospettiva in un futuro remoto. Il motto era: legalitari oggi, rivoluzionari domani. Ma sul piano politico l’oggi diventava preminente. Alleato con i repubblicani, nel 1882 il Partito riuscì a fare eleggere nel collegio di Ravenna lo stesso Costa: il socialismo entrava così in Parlamento. Se il riferimento sociale del Partito di Costa era popolare, più che proletario, a Milano prese vita il Partito operaio nel 1882, che perseguiva l’emancipazione del lavoro manuale in via autonoma, vale a dire escludendo la presenza borghese, e dunque in polemica con il Consolato operaio diretto da radicali. Entrambe erano formazioni poco più che regionali, ma comunque destinate a porre le premesse per la costituzione del Partito dei lavoratori italiani, poi Partito socialista italiano, a Genova nel 1892, dove fu soggetto attivo la Lega socialista milanese guidata da Filippo Turati, che guardava con attenzione all’esperienza della socialdemocrazia, uscita vittoriosa dal braccio di ferro con Bismarck, e che aveva rilanciato il proprio ruolo di guida nell’ambito della II Internazionale, dopo il congresso di Erfurt del 1891. Non tanto o non solo la separazione dagli anarchici, resa necessaria dall’adozione della via legale alla conquista del potere, cioè con il consenso della maggioranza attraverso il voto, quanto la creazione di un partito nazionale e territoriale attraverso la rete delle sezioni e delle federazioni, a cui era preposta una direzione e una segreteria generali, rappresentò davvero un salto di qualità che inizialmente fu percepito da pochi, ma che ben presto si rivelò uno straordinario fattore di mobilitazione politica. La volgarizzazione del marxismo negli anni Novanta, specialmente attraverso La Critica sociale, stampata a Milano, capitale economica (e del proletariato la direzione di Turati, consentiva di conciliare l’attesa della conquista del potere attraverso il Partito e la lotta corporativa, o di classe, affidata al sindacato.

Se si guarda alle dimensioni del movimento sindacale e delle società mutue o cooperative, si dovrebbe rilevare l’esiguità del corpo sociale del Partito, che prima della guerra mondiale non superò mai i cinquantamila iscritti. Ma la funzione politica del Partito, che portò nel 1 895 i primi deputati in Parlamento e andò progressivamente insediandosi nelle amministrazioni comunali, svolse un ruolo di orientamento, coordinamento e impulso decisivi. Come fu teorizzato al congresso di Stuttgart dell’Internazionale socialista del 1907, anche in Italia sembrò prendere piede già nella società borghese il classico edificio socialista fondato su tre pilastri: politico, sindacale e associativo o cooperativo; ma di quei pilastri il decisivo era pur sempre ritenuto quello politico. A quest’ultimo, infatti, erano riservate le funzioni essenziali della formazione del militante c del quadro, la presenza in Parlamento in rappresentanza delle esigenze comuni, la conquista degli enti territoriali, cioè la direzione di fondo. E se per valutare la solidità di un movimento politico si adottano, insieme alla consistenza degli iscritti, anche i parametri della continuità organizzativa, la diffusione sul territorio, la sinergia dei medesimi, la riconoscibilità, il consenso elettorale; allora, per quanto attiene al Partito socialista, si deve convenire che esso ebbe vita secolare, si alimentò di una riconoscibilità trasmessa su scala generazionale, creò un patrimonio simbolico che s’innestò, con quello di altre famiglie politiche, nel tessuto vivo dell’Italia repubblicana, diventandone fattore identitario comune. Per restare al periodo qui considerato, si valuti che in occasione delle elezioni del 1913 ottenne 900.000 voti, pari al 17,7 per cento, con 52 seggi, ma se ai voti dei socialisti ufficiali si fossero aggiunti quelli degli indipendenti e dei socialisti riformisti i voti sarebbero stati 1.147.000, pari al 22,9 per cento. E infine da segnalare clic nelle città con oltre 100.000 abitanti il voto socialista si attestava già al 37,6 per cento. Nel 1914 il successo fu confermato dalla conquista dell’amministrazione di grandi città, come Milano e Bologna. Nelle prime elezioni del dopoguerra, nel 1919, con il sistema proporzionale c lo scrutinio di lista il voto socialista arrivò al 32,4 per cento, con 156 seggi.
 

* L’ascesa del mondo socialista, di Maurizio Degl’Innocenti, prof. Ordinario di Storia contemporanea, in Prefettura di Bologna, Le culture politiche in Italia dal Risorgimento alla costituzione repubblicana. Convegno del 150 dell’Unità d’Italia, Bologna 9 giugno 2011, Bologna Bup 2011, pp. 59-71.

 

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