Contro la guerra e in Parlamento

Il movimento socialista italiano si era sempre opposto al colonialismo, dai tempi della prima guerra africana, che culminò nella disfatta di Adua (1896), fino alla occupazione della Libia (1911-12), contrapponendo alle ambizioni di una politica estera da Grande Potenza la prospettiva dello sviluppo economico e sociale all’interno (“la grande Italia del lavoro”). Di fronte alla prima guerra mondiale, il Partito socialista italiano fu nettamente favorevole alla neutralità dell’Italia, e quando questa entrò nel conflitto nel maggio 1915 mantenne una posizione di non adesione per rimarcare la divisione di responsabilità dalle classi dirigenti interventiste, ritenute colpevoli di gettare il Paese in un’avventura catastrofica, pur nel rifiuto di assumere iniziative che potessero compromettere le sorti dei soldati italiani sul fronte (“né aderire, né sabotare”). Matteotti si segnalò per l’atteggiamento irriducibile contro la guerra, al punto da essere rinviato a giudizio per “disfattismo”, subendo una condanna dal Tribunale che fu poi annullata in Cassazione. Chiamato alle armi, venne allontanato dalla zona del fronte come elemento ”pericoloso”. Congedato nell’agosto 1919, riprese con grande impegno l’attività politica nel Polesine e nel Ferrarese. Nelle elezioni dell’autunno 1919, le prime con sistema proporzionale e scrutinio di lista, fu eletto deputato per il collegio di Ferrara-Rovigo, poi confermato nel 1921 e 1924 per il collegio Padova-Rovigo. Fece parte del direttivo del Gruppo parlamentare per la componente minoritaria riformista, con un orientamento concorde/discorde con la Direzione massimalista del Partito socialista.

Alla Camera fu protagonista autorevole. Fu critico severo della politica finanziaria dei Governi liberali del dopoguerra, che riteneva colpevoli di non riparare la falla aperta dalle spese di guerra non volendo colpire gli indebiti arricchimenti con un’imposta sul capitale. Contro i provvedimenti tampone sulla finanza locale presentò un disegno di legge per un riordino organico, che, con garanzie più certe sulle entrate secondo criteri di progressività, conferisse una più compiuta autonomia all’ente territoriale. In parallelo si adoperò per la riforma della legge elettorale amministrativa, che tuttavia rimase ferma al Senato.

 

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